sabato 5 gennaio 2008

prova

sabato 29 dicembre 2007

Prova: Ton Joad

È abbastanza evidente per chi mi conosce e, credo, anche per chi mi legge qui come da un po’ di tempo a questa parte sia, come si dice a Roma, a rota de Springsteen. Tanto che giusto ieri ho comprato (a caro prezzo, aggiungerei) i biglietti per il mio terzo concerto in due anni, e il sesto in assoluto. Questa mia militanza è iniziata prestissimo: il concerto dello Stadio Flaminio del Tunnel of Love Tour del 1988 è stato il mio secondo concerto della vita, pochi giorni dopo quello di Michael Jackson, e me lo ricordo come una sorta di maratona di musica in cui dopo circa quattro ore noi sul prato eravamo stremati e Bruce sul palco faceva ancora le capriole. Da quel momento in poi ho iniziato a seguire i passi di del Boss, con un certo interesse, senza però raggiungere gli “eccessi” che ho avuto con gli U2, almeno fino a quando non mi sono trovato a seguire un corso di Letteratura Anglo-Americana in cui tra i testi era presente, accanto a Furore di Steinbeck, quel capolavoro di The ghost of Tom Joad. Da quel momento ho capito che c’era decisamente qualcosa in più nella musica di Springsteen. Le storie raccontate in quel disco sono le storie di immigrati clandestini, di poveri, di pescatori che dal Vietnam sono arrivati negli Stati Uniti per rifarsi una vita. E sono anche la storia di una nazione, dei suoi contrasti, dei suoi conflitti, della voglia che quelli rimasti indietro hanno di ottenere ciò che spetterebbe loro di diritto, che vedono in TV o che sentono alla radio. Sono il sogno americano come lo vivono in molti.
Fino a quel momento non credevo che una canzone, un disco, potessero avere un tale valore letterario, che va ben oltre la musica, i gusti, e anche oltre la semplice denuncia sociale.
Oggi la mia conoscenza della musica e del mondo di Springsteen sono molto maggiori di quando ho sentito la prima volta The ghost of Tom Joad, posso dire che questo non è il suo miglior disco, né il mio preferito, ma forse è il più importante, almeno per me. È il disco che mi ha fatto ascoltare la musica per la prima volta in maniera diversa, e che mi ha anche fatto capire quale dovrebbe essere il lavoro dello studioso (non provate a farmi dire critico, per favore): capire qual è la rete di connessioni tra un’opera e il mondo in cui questa è nata.
A partire da una canzone si può capire un pezzo (piccolo, forse) di un paese, di una cultura, di noi. In The ghost of Tom Joad ce ne sono 13, ma valgono almeno per due.